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Navigando sul web mi sono imbattuta in due articoli relativamente datati, risalenti al 2009, che lanciavano l’allarme riguardo alle scadenti competenze linguistiche degli studenti italiani, tali da prefigurare il rischio dell’emersione di un fenomeno di analfabetismo funzionale, ovvero il venir meno delle capacità di scrittura e interpretazione dei testi anche semplici. Dopo l’elencazione di inquietanti dati statistici, all’epoca rilasciati dal CADE, ovvero il Centro Europeo dell’Educazione, addotti a suffragio della tesi dalle tinte catastrofiste, venivano riportati commenti ed opinioni in merito alla situazione da parte di autorevoli esperti, quali Tullio de Mauro, e di docenti universitari di ambito umanistico e non, che chiaramente non hanno potuto fare a meno di puntare il dito contro un’istituzione piuttosto che un’altra alla ricerca di un colpevole cui imputare la responsabilità di questa condizione di regresso linguistico.

Di chi è la responsabilità

Alcuni individuavano la falla nella scuola dell’obbligo, rimproverando il buonismo degli insegnanti, eccessivamente indulgenti anche di fronte ai casi in cui la bocciatura sarebbe inevitabile. Altri sottolineavano come la scarsa attitudine alla lettura degli studenti, che si attengono ai testi imposti e strettamente legati all’ambito accademico, abbia incentivato una quiescenza della padronanza delle strutture della lingua, sia per quanto riguarda la loro riproduzione sia la comprensione di esse. Altri ancora non hanno potuto fare a meno di addossare le responsabilità alle famiglie: ciò, a mio modesto parere, è un errore di cattivo gusto, che non tiene conto del fatto che genitori appartenenti a generazioni passate potrebbero anche non aver nemmeno conseguito la licenza media per ragioni di carattere socio-storico e che quindi potrebbero non avere essi stessi, per cause di forza maggiore, le competenze per riconoscere determinate lacune nella conoscenza della lingua dei figli e per aiutarli a colmarle, senza che questo possa diventare pretesto di stigmatizzazione del ruolo educativo svolto dalla famiglia.

Perchè fare di tutta l’erba un fascio?

Ancora una volta, ciò che può maggiormente causare fastidio è il fatto che l’oggetto di discussione, in questo caso gli studenti universitari in blocco, senza distinzione di curricula di studi, non venga interpellato. Pertanto, anche se a notevole distanza di tempo, provo a farmi interprete anche solo di una parte della popolazione studentesca esprimendo la mia opinione in merito a una situazione che non credo abbia subito cambiamenti in positivo da sei anni a questa parte. In realtà il mio consenso va interamente a quanto sostenuto da Francesco Sabatini, Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca, il quale non si limita a rivolgere accuse contro entità astratte a caso, ma entra nel merito in maniera più specifica e tecnica, individuando un anello mancante proprio nella preparazione degli stessi insegnanti: la communis opinio, infatti, vuole che chiunque sia sufficientemente ferrato nell’ambito della storia della letteratura possa anche insegnare la lingua senza problemi, mentre invece, come lo stesso Sabatini afferma, lo studio e la conoscenza della disciplina della Linguistica dovrebbe essere requisito imprescindibile per gli aspiranti docenti, insieme a una formazione specifica per la didattica della stessa materia. Insomma, attualmente è come se il bue dicesse di avere le corna all’asino: prima di tacciare di ignoranza gli studenti, sarebbe bene operare una revisione del corpo docente – anche universitario – per appurare che ci siano i titoli innanzitutto per detenere questo ruolo.

Lo scritto non è più di moda

In secondo luogo, se consideriamo i dati secondo cui, ad esempio, 21 laureati su 100 non andrebbero oltre il livello minimo di decifrazione di un testo, mi sento di dover criticare il sistema per cui, in ambito accademico, le prove d’esame prevedano prevalentemente la forma del colloquio orale, cui raramente si accede attraverso un preliminare esame scritto; e anche qualora questo accada, spesso si tratta di prove della tipologia di domande a risposta multipla, che si limitano a testare conoscenze nozionistiche e che non richiedono nessun particolare procedimento di elaborazione mentale se non quello della mera comprensione della domanda posta e delle risposte elencate, e che, a quanto pare, nella sua banalità provoca già notevoli difficoltà. Perché l’esame scritto, dove per “scritto” si intende l’elaborazione di un testo originale e ragionato, non è più di moda? Eppure ciò stimolerebbe gli studenti a esercitarsi nella pratica della scrittura, non solo consolidando le conoscenze pregresse ma anche migliorando e arricchendo il proprio bagaglio lessicale e di competenze sintattiche, prevenendo l’impoverimento del patrimonio linguistico; spronerebbe a una maggiore attenzione per l’ortografia e per la punteggiatura, i due aspetti su cui si concentra la maggior parte degli errori commessi da studenti e insegnanti, cui andrebbe richiesta maggiore severità nel correggere gli elaborati dal punto di vista formale; infine, qualora il risultato della prova scritta precludesse o meno l’accesso al colloquio orale, costituendo una sorta di cernita preliminare, il sistema potrebbe garantire maggiore regolarità e rispetto della meritocrazia.
Purtroppo la conclusione cui non si può fare a meno di giungere, è che l’esame scritto non viene più proposto dagli stessi docenti perché la correzione delle prove comporterebbe un rallentamento dei tempi e un aumento del carico di lavoro, sacrifici che quasi più nessuno è disposto a compiere per amore di una migliore preparazione degli studenti, soprattutto quando non prevedono una adeguata remunerazione in termini economici; dall’altra parte, mi rendo perfettamente conto che la mia opinione possa risultare alquanto impopolare tra gli stessi universitari, ma a questo punto ci sarebbe da valutare con quanta serietà si affronti un percorso di laurea e quale sia l’importanza attribuita a ciò che si dovrebbe aver maturato al termine di esso, e cioè se siamo noi i primi ad accontentarci di un famoso “pezzo di carta” privo di valore effettivo o se la motivazione è tale da pretendere di più non solo dal sistema ma anche da noi stessi.

Per Cesare Segre, chi non ha padronanza della propria lingua non ha il dominio della realtà, perchè essa è lo strumento di cui disponiamo per entrare in contatto con il mondo: non essere capaci di esprimersi rende incapaci di giudicare.

Le lacune linguistiche degli universitari: di chi è la colpa?

Fonte: Onesiphoros
Foto di: kshelton e Frederic Gullory

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