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Quando Adriana mi ha annunciato che saremmo andate in prigione, ero la persona più felice del mondo. Non capita tutti i giorni di avere la possibilità di entrare in un carcere brasiliano e poter parlare con chi ci sta dentro da anni; il Consolato dove facevo lo stage si premurava ogni anno di preparare dei pacchi con qualche oggetto che poteva tornare utile ai detenuti italiani, e noi glielo dovevamo portare. So che è una cosa un po’ perversa, ma ero veramente emozionata di poter partecipare a questi incontri: non avevo mai visto una prigione da dentro, tantomeno avevo parlato con dei detenuti, chissà cosa avevano fatto, da quanto tempo erano dentro, e se è tutto come nei film. Adriana mi aveva dato la responsabilità di preparare i pacchi; eravamo uscite a comprare un po’ di vestiti, molto sobri, del sapone, degli spazzolini, dei deodoranti (solo quelli nella boccetta di vetro trasparente perché le guardie potessero ben vedere che dentro ci fosse solo deodorante e non un set di lime per evadere), delle gallette. Poi avevamo comprato dei vestiti da bambina, perché una donna era detenuta insieme a sua figlia di due anni, lì nel carcere di Bangù. Le ho comprato un vestitino, sobrio, e per giorni ho provato a immaginare come deve essere nascere in prigione.

I ragazzi del carcere

Nel pomeriggio Adriana mi aveva lasciata sola in ufficio coi pacchi da preparare; avevo dovuto tagliare ogni saponetta in 6 parti e metterle in dei sacchettini trasparenti, sempre per questioni di sicurezza, scartare ogni oggetto e buttarne l’involucro, fotografare il tutto e preparare una lista accurata degli oggetti che erano nel pacco. E’ una specie di complesso carcerario, quello di Bangù. Come se fossero tante prigioni attaccate, separate da mura altissime. Al primo, dove avremmo dovuto incontrare due detenuti, ci hanno fatto aspettare fuori un’ora. “Veniamo dal Consolato italiano”, avevamo detto, con tanto di autista e di auto blu. Ma non ci potevano fare entrare, era scoppiata una rivolta dei detenuti e la stavano sedando, aveva detto la guardia, e aveva richiuso lo spioncino dell’enorme cancello in metallo. Iniziava a venirmi un po’ di ansia. La rivolta da sedare, gli occhi della guardia dentro quella fessura, dietro quel cancello, e quelle mura così cazzo alte, alte, alte. Poi siamo entrati. Due ragazzi in divisa si sarebbero occupati di ispezionare il contenuto del pacco, e noi potevamo andare a parlare coi nostri uomini.

Uno era giovane; aveva gli occhi blu e la faccia simpatica. Avevo appreso poco prima che cinque anni prima lo avevano beccato in aeroporto con non so’ quanta cocaina nascosta in un finto gesso al braccio. Introvabile. Abbiamo bevuto un caffè.
“Non c’era nessuna rivolta, solo che ogni tanto ci sono risse tra poliziotti e detenuti”, aveva detto. “E non siamo sempre noi a provocarle”. Non mi guardava in faccia. Non sapevo bene cosa chiedergli. Perché sei dentro? Come ti trattano? Quanti siete in cella? Quando torni a casa? Cambierai vita? Ti manca la tua vita di prima? Poi mi bloccavo, e guardavo la tazzina, e pensavo a quante domande avrei potuto fargli mentre lui discuteva con l’assistente sociale. “Non chiamo i miei genitori da troppo tempo, da mesi, non mi fanno usare il telefono”, le diceva. “Ma il pacco?” avevo chiesto a un certo punto. “Te lo porteranno?” “Sì… Vuoto… Guadagnano una miseria ‘sti qua”, aveva detto, guardando gli uomini in divisa che passavano in corridoio. Volevo solo sprofondare nella mia tazzina piena di caffè, mi sentivo quasi in colpa a essere lì, vestita bene, venuta dal Consolato italiano, davanti a lui, pelato, magrino, preoccupato, segnato, sconfitto. La verità è che a un certo punto me ne volevo andare, perché sapevo che non avrei potuto fare niente per aiutarlo; sapevo che avrebbe potuto dire che veniva abusato tutti i giorni, e io avrei continuato a guardare la mia tazzina e a aspettare il pacco, perché era l’unica cosa da aspettare, era l’unica cosa che ero venuta a portargli, aldilà delle mie domande e della mia faccia sconvolta.
L’unico pensiero che mi faceva sentire meno in colpa era la promessa solenne che mi ero fatta in quel momento, ovvero, che avrei scritto una tesi meravigliosa sulle condizioni carcerarie in Brasile e avrei denunciato tutto quello che succedeva, mi sarei battuta per i diritti dei prigionieri, avrei salvato il mondo. Tutto questo non è mai successo, ma non lo sapevo ancora. Quando lo abbiamo salutato, il pacco non era ancora arrivato. “Tanto gli manca poco, un anno ed è fuori”, mi aveva detto il mio capo. Un anno. E quelle mura, così alte.

DiaRIO #2: in prigione


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