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Sabato scorso, allo Stadio Olimpico di Roma, si è consumato l’ennesimo atto della “storia nera” del calcio italiano. Lo sport nazionale, seguito e idolatrato in tutto il paese, è diventato ancora una volta il pretesto per l’affermazione di una cultura violenta e arrogante come quella delle fasce più estremiste della tifoseria organizzata.

A seguito degli scontri violenti che hanno avuto luogo al di fuori del campo da gioco, che sono culminati in una sparatoria in cui si contano una decina di feriti, abbiamo assistito ad una scena che, agli occhi degli spettatori italiani e del mondo, ha rappresentato l’arrendevolezza delle istituzioni e delle società sportive italiane ai diktat del mondo ultrà: la trattativa fra il capitano del Napoli Hamsik e il capo ultrà partenopeo Gennaro De Tommaso, detto Genny ‘a carogna, che si conclude con quest’ultimo che, alla fine, decreta la possibilità di iniziare la partita con 45 minuti di ritardo. Una trattativa su cui pesa anche la presenza contemporanea, nello stadio, di due delle massime autorità dello Stato italiano, il premier Matteo Renzi e il Presidente del Senato Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia.
Le pallottole fuori dallo stadio, i fumogeni sul campo, il ricatto della curva, quella maglietta ostentata da De Tommaso, con la scritta “Speziale libero”, inneggiante all’ultrà condannato per l’omicidio del poliziotto Filippo Raciti, e infine i fischi sulle note dell’inno nazionale: ma basterà tutto questo ad imprimere una svolta?

I tristi precedenti. Se la distruzione e la morte non bastano.

La passione sportiva dovrebbe costituire, nell’ordine, uno stimolo a migliorare sé stessi, un’occasione per far conoscere persone di città, paesi, continenti diversi, una divertente forma d’intrattenimento. Ma quando diventa fede inappellabile, cieca, fanatica allora tutti gli ideali vengono a mancare, e non si può più parlare di amore per il calcio, quanto piuttosto di pretesto per sfogare rabbia e disagi repressi, o, nell’ipotesi più inquietante, di compiere atti di forza per proteggere poteri ed interessi “occulti”, per modo di dire.

Infatti l’infiltrazione mafiosa nel mondo del calcio è una realtà acclarata – lo stesso De Gennaro è vicino ad ambienti della camorra. Eppure ancora si fa finta di non vedere o si cerca di minimizzare, specialmente da parte di alcune associazioni sportive. Da sabato sera, un tifoso napoletano versa in condizioni gravi all’ospedale, con una ferita d’arma da fuoco che ha raggiunto la spina dorsale.

Ma non è la prima né l’unica vittima. Già nel 2007 si era gridato basta alla violenza fuori e dentro gli stadi, quando un’ondata di commozione generale aveva scosso il Paese per la morte, durante uno scontro fra forze dell’ordine ed ultrà a Catania, dell’ufficiale di polizia Filippo Raciti. Eppure, come ci ricorda la t-shirt di De Gennaro divenuta tristemente famosa, quella scossa si è esaurita ben presto dopo varie promesse di adottare provvedimenti più severi per aumentare la sicurezza, come ha dimostrato, tre anni più tardi, nel 2010, la messa a ferro e fuoco della città di Genova da parte degli ultrà serbi, capeggiati da Ivan Bogdanov.

La notte in cui morì Filippo Raciti

Hooligans, estremisti di destra ed indipendesti baschi. Come se la cavano all’estero.

Il problema degli ultrà, evidentemente, non riguarda soltanto l’Italia. Nei tre Paesi europei che ospitano i principali campionati di calcio si sono adottate diverse soluzioni nel tempo, che, seppure non pienamente risolutive, hanno consentito di aggirare il fenomeno.

In Gran Bretagna, dove le autorità hanno dovuto fronteggiare gli hooligans fin dagli anni ’60, si è puntato su una fortissima responsabilizzazione delle società sportive, accompagnato da un complessivo miglioramento delle strutture sportive sostenuto e parzialmente finanziato dallo Stato, a seguito del fallimento di una misura di censimento dei tifosi su scala nazionale.

In Germania, dove è stata recepita la lezione anglosassone sul rinnovo degli impianti e l’assenza di barriere, è compito delle autorità regionali richiedere la presenza della polizia per quelle partite ritenute a rischio, mentre sono i club che aiutano a individuare i tifosi più violenti che possono essere espulsi a tempo indeterminato dagli stadi. In questi ultimi anni vi è una particolare attenzione, da parte delle autorità tedesche, per l’aumento delle infiltrazioni politiche di estrema destra nelle tifoserie.

In Spagna è comune la presenza di elementi legati alla causa dell’indipendentismo basco fra la tifoserie più esaltate. Anche qui esiste la figura dello steward, mentre spetta ai club delle squadre il pagamento di forze di polizia aggiuntive in caso di partite considerate a rischio. Negli stadi è proibito introdurre bandiere e aste, mentre i tifosi più violenti possono venire espulsi dagli stadi per tre, sei o anche più mesi.

Britain Soccer FA Cup

Esiste una cura per l’Italia?

Si può prendere esempio dagli altri Paesi per cercare di cambiare la situazione? Sì, ma non basta. Io credo che finché non si vorranno adottare misure atte a migliorare la cultura dello sport, che dovrebbe coinvolgere in primo luogo le strutture educative del nostro Paese, si potrà fare ben poco contro l’idea malata dello sport come scontro violento ed incivile da una parte, e come mero strumento di guadagno, per cui tutto è concesso, dall’altra. Proviamo a proporre e ad incentivare una visione sana della passione sportiva, fatta con “i piedi”, simbolo della dedizione, del sacrificio, della strada da percorrere, e non con i pugni.


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